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Quando i miei occhi si sono aperti
Novembre 2019
Quando i miei occhi si sono aperti

 

Quando scesi dal treno alla stazione di Roma Termini per la prima volta - erano le otto di sera, inizio novembre - avrei voluto salirci su di nuovo per tornare immediatamente a casa.

Avevo 19 anni e fino a quel momento ero sempre stato con i miei genitori, a Catanzaro, in Calabria. E’ una piccola città di provincia del sud Italia, non succede mai niente. L’università, chi può, va “fuori” a farla.

A Catanzaro alla fine degli anni 90 i poveri non c’erano. O non si vedevano in giro. A Roma Termini invece c’erano, si vedevano bene e si sentivano benissimo.

La stazione alla fine degli anni 90 non è come adesso. Niente porte automatiche per controllare gli accessi ai binari, niente centri commerciali o vetrine scintillanti, niente treni Alta Velocità rosso fiammante. Niente di tutto questo. C’era invece un esercito di persone che sembrava vivessero lì da sempre, rannicchiati nelle loro coperte tra un binario e l’altro, pronti ad accogliere i viaggiatori con le loro imprecazioni etiliche e la loro enorme puzza.

Ricordo benissimo la puzza che c’era. Spessa, densa, quasi solida. Sembrava di poterla toccare con le mani. Enorme.

Io avevo una valigia pesantissima.

Non ricordo esattamente come successe: un attimo prima ero sul predellino del vagone, un piede quasi a terra; un attimo dopo ero a terra, ma disteso sulla banchina del binario 7, dentro quella puzza fortissima. Era più vicina adesso: aspra di sudore marcio, vino di pessima qualità e cane bagnato.

Una bocca storta e senza denti mi sputava in faccia parole che non capivo. Urlava come una caffettiera lasciata sul fuoco troppo a lungo ma amplificata cento volte, distorta.

Ricordo che ebbi un conato di vomito e mi tirai su in piedi velocissimo, indietreggiando verso il treno che a sua volta vomitava altri giovani passeggeri come me, con le loro valigie sproporzionate, i vestiti deformati dal viaggio e le facce stralunate.

Solo a quel punto iniziai a mettere bene a fuoco la scena: un uomo avvolto in una lurida coperta marrone steso su un cartone stracciato, mi urlava in faccia con gli occhi stretti, ridotti a una fessura, il volto deformato dallo sforzo, la bocca spalancata e umida, i capelli bianchi annodati, attorcigliati sulla testa in un groviglio compatto, inestricabile. Accanto a lui, in un coro stonato, abbaiava un cane dall’aspetto molto simile.

Qualcuno mi tenne in piedi reggendomi da dietro. Mi ripresi dallo spavento e finalmente, in un attimo di silenzio del cane, riuscii a capire cosa diavolo stava urlando quell’uomo: aaaiuuuutamiiii.

Aiutami.

Credevo mi stesse rivolgendo insulti irripetibili, in una lingua a me ignota, augurandomi i peggiori malanni e invece stava invocando il mio aiuto.

Giuro che il mio primo pensiero fu “ma dove sono? che ci sono venuto a fare qui a Roma? domani me ne torno a casa!”.

Non fu così, e fu un bene per me. Confesso che quella sera fuggii letteralmente a gambe levate dalla stazione. Presi il 90 direzione “Labia”, come mi aveva detto Marco, un amico che era già a Roma da un anno, e arrivai a casa sua ancora abbastanza scosso.

Ma da quel giorno qualcosa era cambiato. Avevo visto da molto vicino qualcosa che prima “esisteva” lontana, nei racconti di qualche zio o in televisione. E continuavo a vederla in giro ogni giorno. In metro, sugli autobus, agli angoli delle strade del centro e, ovviamente, in stazione.

Continuavo a vedere quell’uomo e la sua faccia in tutti gli altri uomini che vivevano per strada. Sembrava che tutti mi urlassero quella stessa parola, aiutami, anche quando in effetti dicevano altro…

Un giorno non ho più resistito. Mi sono avvicinato a uno che stava sempre vicino casa, alto più o meno come me, e gli ho detto se voleva venire a farsi una doccia, a cambiarsi i vestiti.

Ha accettato.

Siamo andati a casa, si è fatto una doccia, gli ho dato dei vestiti miei, gli ho fatto un caffè, mi ha detto grazie e se ne è andato.

Non mi ero mai sentito così felice come allora!

Credo che sia stato quello il momento in cui ho iniziato a pensare che nella vita avrei dovuto fare qualcosa per gli altri. Qualcosa che mi avrebbe permesso di provare ancora e ancora quella fortissima sensazione di felicità nata dall’aver offerto qualcosa a cui per me non era un problema rinunciare. Un po’ d’acqua calda, un maglione e un paio di pantaloni, un caffè.

Sarà forse un meccanismo un po’ egoistico? Forse sì ma non vedo quale sia il problema se, al tempo stesso, fa bene anche a un’altra persona.

“Ho quel che ho donato”, ho letto un giorno su un muro a Bologna. Non c’è niente di più vero!

Forse è per tutto questo, e per quell’incontro sulla banchina del binario 7 alla fine degli anni 90, che oggi il mio lavoro è chiedere alle persone di donare. Perché io ne ho sperimentato la gioia e, insieme, l’utilità.

Auguro a tutti di sperimentare ripetutamente una gioia così! 

 

 

Pietro Tallerico

Responsabile relazioni con i donatori